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XX.

Vennero i duci, e gli altri anco seguire,
E Boemondo sol quì non convenne.
Parte fuor s'attendò, parte nel giro,
E tra gli alberghi suoi Tortosa tenne.
I grandi de l' esercito s'uniro,
Glorioso senato, in dì solenne,
Quì 'l pio Goffredo incominciò tra loro
Augusto in volto ed in sermon sonoro :

XXI.

Guerrier di Dio ch' a ristorare i danni
De la sua fede il re del cielo elesse,
E securi fra l'arme e fra gl' inganni

De la terra e del mar vi scorse e resse,
Sì ch'abbiam tante e tante in sì pochi anni
Ribellanti province a lui sommesse,
E fra le genti debellate e dome

Stese l'insegne sue vittrici e 'l nome:

XXII.

Già non lasciammo i dolci pegni e 'l nido
Nativo noi, se'l creder mio non erra,
Nè la vita esponemmo al mare infido
Ed a i perigli di lontana guerra,
Per acquistar di breve suono un grido
Volgare e posseder barbara terra;

Chè proposto ci avremmo angusto e scarso

Premio, e in danno de l' alme il sangue sparso:

XXIII.

Ma fu de' pensier nostri ultimo segno
Espugnar di Sion le nobil mura,

E sottrarre i cristiani al giogo indegno
Di servitù così spiacente e dura,
Fondando in Palestina un novo regno,
Ov' abbia la pietà sede sicura;
Nè sia chi neghi al peregrin devoto
D' adorar la gran tomba e sciorre il voto.

XXIV.

Dunque il fatto sin ora al rischio è molto, Più che molto al travaglio, a l' onor poco, Nulla al disegno, ove si fermi o volto Sia l'impeto de l' armi in altro loco. Che gioverà l' aver d'Europa accolto Si grande sforzo e posto in Asia il foco, Quando sian poi di sì gran moti il fine Non fabbriche di regni, ma ruine?

XXV.

Non edifica quei che vuol gl' imperi
Su fondamenti fabbricar mondani,
Ove ha pochi di patria e fè stranieri
Fra gl' infiniti popoli pagani;

Ove ne' greci non convien che speri,
E i favor d'occidente ha sì lontani;
Ma ben move ruine ond' egli oppresso,
Sol costrutto un sepolcro abbia a se stesso.

XXVI.

Turchi, persi, Antiochia (illustre suono E di nome magnifico e di cose!)

Opre nostre non già, ma del ciel dono
Furo e vittorie fur meravigliose.
Or, se da noi rivolte e torte sono
Contra quel fin che 'l donator dispose,
Temo cen privi, e favola a le genti
Quel sì chiaro rimbombo alfin diventi.

XXVII.

Ah non fia alcun, per Dio, che sì graditi Doni in uso sì reo perda e diffonda! A quei che sono alti principj orditi Di tutta l'opra il filo e'l fin risponda. Ora che i passi liberi e spediti, Ora che la stagione abbiam seconda, Chè non corriamo a la città ch'è meta D'ogni nostra vittoria? e che più'l vieta?

XXVIII.

Principi, io vi protesto (i miei protesti Udrà il mondo presente, udrà il futuro, L'odono or su nel cielo anco i celesti) Il tempo de l'impresa è già maturo. Men diviene opportun più che si resti: Incertissimo fia quel ch' è sicuro. Presago son, s'è lento il nostro corso, Ch' avrà d'Egitto il palestin soccorso.

XXIX.

Disse, e a i detti seguì breve bisbiglio: Ma sorse poscia il solitario Piero

Che privato fra' principi a consiglio
Sedea, del gran passaggio autor primiero.
Ciò ch' esorta Goffredo, ed io consiglio;
Nè loco a dubbio v’ha, sì certo è il vero
E per se noto: ei dimostrollo a lungo,
Voi l'approvate, io questo sol v'aggiungo:

XXX.

Se ben raccolgo le discordie e l'onte
Quasi a prova da voi fatte e patite,
I ritrosi pareri e le non pronte

E in mezzo a l' eseguire opre impedite,
Reco ad un' alta originaria fonte
La cagion d'ogni indugio e d'ogni lite;
A quella autorità che in molti e vari
D'opinion, quasi librata, è pari. •

XXXI.

Ove un sol non impera, onde i giudici Pendano poi de' premj e de le pene, Onde sian compartite opre ed uffici, Ivi errante il governo esser conviene. Deh! fate un corpo sol de i membri amici: Fate un capo che gli altri indrizzi e frene: Date ad un sol lo scettro e la possanza, E sostenga di re vece e sembianza.

XXXII.

Quì tacque il veglio. Or quai pensier, quai petti
Son chiusi a te, sant' aura e divo ardore?
Inspiri tu de l' eremita i detti,

E tu gl' imprimi a i cavalier nel core:
Sgombri gl' inserti, anzi gl' innati affetti
Di sovrastar, di libertà, d'onore;

Sì che Guglielmo e Guelfo, i più sublimi,
Chiamar Goffredo per lor duce i primi.

XXXIII.

L'approvar gli altri. Esser sue parti denno
Deliberare e comandare altrui.

Imponga a i vinti legge egli a suo senno:
Porti la guerra e quando vuole e a cui :
Gli altri, già pari, ubbidienti al cenno
Siano or ministri de gl' imperj sui.
Concluso ciò, fama ne vola e grande
Per le lingue de gli uomini si spande.

XXXIV.

Ei si mostra a i soldati, e ben lor
pare
Degno de l' alto grado ove l'han posto :
E riceve i saluti e 'l militare
Applauso in volto placido e composto.
Poi ch'a le dimostranze umili e care
D'amor, d' ubbidienza ebbe risposto,
Impon che'l dì seguente in un gran campe

Tutto si mostri a lui schierato il campo.

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