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LIBERATA.

CANTO OTTAVO.

ARGOMENTO.

Narra a Goffredo del signor de' dani
Il valor prima un messo e poi la morte.
Credendo quei d'Italia a' segni vani,
Stimano estinto il lor Rinaldo forte.
Dunque al furor che Aletto spira, insani
Di soverchia ira e d'odio, apron le porte,
E minaccian Goffredo. Ei con la voce
Sola in lor frena l'impeto feroce.

I.

GIA cheti erano i tuoni e le tempeste,
E cessato il soffiar d'austro e di coro;
E l'alba uscia de la magion celeste
Con la fronte di rose e co' piè d'oro.
Ma quei, che le procelle avean già deste,
Non rimaneansi ancor da l' arti loro;
Anzi l'un d'essi, ch' Astragorre è detto,
Così parlava a la compagna Aletto:

II.

Mira, Aletto, venirne (ed impedito
Esser non può da noi) quel cavaliero
Che da le fere mani è vivo uscito
Del sovran difensor del nostro impero.
Questi, narrando del suo duce ardito
E de' compagni a i franchi il caso fero,
Paleserà gran cose: onde è periglio
Che si richiami di Bertoldo il figlio.

III.

Sai quanto ciò rilevi, e se conviene
A i gran principj oppor forza ed inganno.
Scendi tra i franchi dunque, e ciò ch' a bene
Colui dirà tutto rivolgi in danno.

Spargi le fiamme e 'l tosco entro le vene
Del latin, de l' elvezio, e del britanno :
Movi l'ire e i tumulti, e fa tal' opra,
Che tutto vada il campo alfin sossopra.

IV.

L'opra è degna di te : tu nobil vanto Ten desti già dinanzi al signor nostro. Così le parla; e basta ben sol tanto, Perchè prenda l'impresa il fero mostro. Giunto è sul vallo de' cristiani intanto Quel cavaliero il cui venir fu mostro; E disse lor: deh! sia chi m' introduca Per mercede, o guerrieri, al sommo duca.

V.

Molti scorta gli furo al capitano, Vaghi d'udir dal peregrin novelle. Quegli inchinollo, e l'onorata mano Volea baciar, che fa tremar Babelle. Signor, poi dice, che con l'oceano Termini la tua fama e con le stelle, Venirne a te vorrei più lieto messo. Quì sospirava, e soggiungeva appresso:

VI.

Sveno del re de' dani unico figlio,
Gloria e sostegno a la cadente etade,
Esser tra quei bramò che 'l tuo consiglio
Seguendo an cinto per Gesù le spade.
Nè timor di fatica o di periglio,
Nè vaghezza del regno, nè pietade
Del vecchio genitor, sì degno affetto
Intepidir nel generoso petto.

VII.

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Lo spingeva un desio d' apprender l'arte De la milizia faticosa e dura

Da te sì nobil mastro; e sentia in parte
Sdegno e vergogna di sua fama oscura,
Già di Rinaldo il nome in ogni parte
Con gloria udendo in verdi anni matura.
Ma più ch' altra cagione il mosse il zelo
Non del terren, ma de l' onor del cielo.

VIII.

Precipitò dunque gl' indugj, e tolse
Stuol di scelti compagni audace e fero;
E dritto in ver la Tracia il cammin volse
A la città che sede è de l'impero.

Quì il greco augusto in sua magion l'accolse:
Quì poi giunse in tuo nome un messaggiero.
Questi appien gli narrò come già presa
Fosse Antiochia, e come poi difesa :

IX.

Difesa incontra al perso, il qual con tanti

Uomini armati ad assediarvi mosse

Che sembrava che d'arme e d'abitantí
Voto il gran regno suo rimaso fosse.
Di te gli disse e poi narrò d' alquanti,
Sinch'a Rinaldo giunse, e qui fermosse.
Contò l'ardita fuga, e ciò che poi
Fatto di glorioso avea tra voi.

X.

Soggiunse alfin come già il popol franco Veniva a dar l'assalto a queste porte; E invitò lui, ch' egli volesse almanco De l'ultima vittoria esser consorte.、 Questo parlar al giovinetto fianco Del fero Sveno è stimolo sì forte, Ch'ognora un lustro pargli infra' pagani Rotar il ferro e insanguinar le mani.

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XI.

Par che la sua viltà rimproverarsi,
Senta ne l' altrui gloria, e se ne rode:
E chi'l consiglia e chi 'l prega a fermarsi,
O che non esaudisce o che non ode.

Rischio non teme, fuor che 'l non trovarsi
De' tuoi gran rischi a parte e di tua lode.
Questo gli sembra sol periglio grave;"
De gli altri o nulla intende o nulla pave.

XII.

Egli medesmo sua fortuna affretta, Fortuna che noi tragge e lui conduce; Però ch' appena al suo partire aspetta I primi rai de la novella luce.

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per miglior la via più breve eletta; Tal' ei la stima, ch'è signore e duce; Nè i passi più difficili o i paesi Schivar si cerca de' nemici offesi.

XIII.

Or difetto di cibo, or cammin duro
Trovammo, or violenza ed or❜ agguati;
Ma tutti fur vinti i disagj, e furo
Or uccisi i nemici ed or fugati.

Fatto avean ne' perigli ogni uom securo
Le vittorie e insolenti i fortunati;

Quando un dì ci accampammo ove i confini

Non lungé erano omai de' palestini.

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