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XIV.

Onde così rispose: I gradi primi
Più meritar che conseguir desio;
Nè, purchè me la mia virtù sublimi,
Di scettri altezza invidiar degg' io:
Ma se a l'onor mi chiami, e che lo stimi
Debito a me, non ci verrò restio;
E caro esser mi dee che sia dimostro
segno da voi del valor nostro.

Sì bel

XV.

Dunque io nol chiedo e nol rifiuto, e quando Duce io pur sia, sarai tu de gli eletti. Allora il lascia Eustazio e va piegando De' suoi compagni al suo voler gli affetti. Ma chiede a prova il principe Gernando Quel grado; e bench' Armida in lui saetti, Men può nel cor superbo amor di donna, Ch'avidità d' onor che se n' indonna.

XVI.

Sceso Gernando è da' gran re norvegj
Che di molte province ebber l'impero;
E le tante corone e scettri regj

E del padre e de gli avi il fanno altero.
Altero è l' altro de' suoi proprj pregj
Più che de l'opre che i passati fero;
Ancorché gli avi suoi cento e più lustri
Stati sian chiari in pace e'n guerra illustri.

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X X.

Vinca egli o perda omai, fu vincitore Sin da quel dì ch' emulo tuo divenne: Chè dirà il mondo, e ciò fia sommo onore, Questi già con Gernando in gara venne. Poteva a te recar gloria e splendore Il nobil grado che Dudon pria tenne; Ma già non meno esso da te n'attese: Costui scemò suo pregio allor che 'l chiese.

XXI.

E se, poi ch' altri più non parla o spira, De' nostri affari alcuna cosa sente,

Come credi che in ciel di nobil' ira

Il buon vecchio Dudon si mostri ardente;
Mentre in questo superbo i lumi gira
Ed al suo temerario ardir pon mente,
Che seco ancor, l' età sprezzando e'l merto,
Fanciullo osa agguagliarsi ed inesperto?

XXII.

E l'osa pure e 'l tenta, e ne riporta
In vece di castigo onore e laude;
E v'è chi nel consiglia e ne l' esorta,
O vergogna comune! e chi gli applaude.
Ma se Goffredo il vede e gli comporta
Che di ciò ch'a te dessi egli ti fraude,
Nol soffrir tu: nè già soffrir lo dei;
Ma ciò che puoi dimostra e ciò che sei.

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XXVI.

Or quivi allor che v'è turba più folta
Pur, com' è suo destin, Rinaldo accusa,
E quasi acuto strale in lui rivolta
La lingua del venen d'averno infusa:
E vicino è Rinaldo e i detti ascolta,
Nè puote l' ira omai tener più chiusa,
Ma grida: menti; e addosso a lui si spinge,
E nudo ne la destra il ferro stringe.

XXVII.

Parve un tuono la voce e 'l ferro un lampo, Che di folgor cadente annunzio apporte. Tremò colui, nè vide fuga o scampo

Da la presente irreparabil morte;
Pur, tutto essendo testimonio il campo,
Fa sembiante d' intrepido e di forte,
E'l gran nemico attende; e, 'l ferro tratto,
Fermo si reca di difesa in atto.

XXVIII.

Quasi in quel punto mille spade ardenti Furon vedute fiammeggiar insieme;

Chè varia turba di mal caute genti

D'ogn' intorno v' accorre e s'urta e preme.
D'incerte voci e di confusi accenti

Un suon per l'aria si raggira e freme,
Qual s'ode in riva al mare ove confonda
Il vento i suoi co' mormorii de l'onda.

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