Ed ove altri da' lacci il piè ritiri, E gli arditi pensier temendo affrene, Apre un benigno riso, e'n dolci giri Volge le luci, più del Ciel serene; E que'suoi pigri e timidi desiri Sprona, ed affida la dubbiosa spene: Ed infiammando l' amorosa voglia, Sgombra ogni gel, che la paura accoglia.
Ad altri poi, ch' audace il segno varca, Scorto da cieco e temerario Duce, De' cari detti, e de' begli occhi è parca; E seco tema e riverenza induce:
Ma fra lo sdegno, onde la fronte è carca, Pur anco un raggio di pietà riluce ; Ond' egli per timor nulla dispera, E più s'invoglia, ove più sembri altera.
Stassi talvolta tacita e pensosa,
E'l volto, e gli atti suoi compone, e finge, E qualche finta lagrima amorosa
Ora tragge su gli occhi, or la rispinge, Come chi teme, e lagrimar non osa: Così mille alme semplicette astringe; E'n foco di pietà strali d'amore
Dolci contempra, indi gli avventa al core.
Poi, siccom' ella a quei pensier s'invole, E novella speranza in lei si deste, Volge agli amanti il piede e le parole, E di lieto color s'adorna e veste, E lampeggiar fa, quasi un nuovo Sole, Il chiaro sguardo, e 'l bel viso celeste, Sulla nebbia del duolo oscura e folta, Che s'era d' ogn' intorno a' cori accolta.
E mentre dolce parla, e dolce ride, E con doppia dolcezza alletta i sensi, Quasi dal petto l'alma e'l cor divide, Non prima usata a que' piaceri intensi. Ahi cieco Amor! ch' egualmente n'ancide L'assenzio e'l mel, che tu fra noi dispensi; E col tuo fero varíar, mortali
Tu porgi altrui le medicine, e i mali.
Fra sì contrarie tempre in ghiaccio e'n foco, In riso e'n pianto, e fra paura e spene, Gl'inforsa, e rota, e i lor tormenti in gioco L'ingannatrice donna a prender viene. E s'alcun mai con dir tremante e fioco. Osa parlando appalesar le pene,
Finge, quasi in amor rozza e inesperta, Non veder l'alma ne' suoi detti aperta.
O pur le luci vergognose e chine, E'l volto d'ouestate orna e colora, E quasi cela altrui le calde brine Sotto le rose, ond' il bel viso infiora; Come spargendo al Ciel l'aurato crine Nell' Oriente appar la bella Aurora : E'l rossor dello sdegno insieme n'esce Colla vergogna, e si confonde e mesce.
Ma se prevede, e di lontan s'accorge D'uom, che tenti scoprir l'accese voglie, Or gli s'invola; or loco, e modo porge, Onde ragioni, e subito il ritoglie. Così il di tutto in vano error lo scorge, E stanca ogni speranza al fin gli toglie: Egli riman, qual cacciator, ch'a sera Perdute ha l'orme di seguita fera.
Queste fur l'arti, onde mille alme e mille Prender, quasi di furto, allor poteo; Anzi pur con queste arme essa rapille, Ed a forza d'Amor serve le feo.
Qual meraviglia or fia, se'l fero Achille D'Amor fu vinto, ed Ercole e Teseo? Se qual più casto ancor la spada cinge, L'empio ne' lacci suoi lega e distringe.
Ch'a Guidon successor Riccardo sia Non vuol Gernando, ch'esso ancor v'aspira; Ma quegli, che l'incarco omai sentia, Fa col ferro vendetta, onde egli spira L'alma nel sangue. A tal novella ria Turbasi il Duce, e 'n bando si ritira L'uccisor, che prigion sdegna ; si parto Co'dieci Armida, e più ne trae con arte.
Mentre in tal guisa i Cavalieri alletta Nell' amor suo l'insidiosa Armida ; Nè solo i diece a lei promessi aspetta, Ma di seco menarne altri confida; Volge tra sè Goffredo a qual commetta La dubbia impresa più secura guida; Į Che di tanti guerrier la copia, e 'l merto,
E'l desir di ciascuno il fanno incerto.
Nè d'onor, nè d'arbitrio alcun dispoglia; Ma come dritto estima, a tutti impone Ch' a suo senno si scelga, anzi a sua voglia, Chi successor fia eletto al buon Guidone; Così di lui non fia ch'altri si doglia, Ch'un medesmo voler sia freno, e sprone, Spingendo alcuno, alcun tenendo a forza; Se pur leggi ha virtù, cui nulla sforza.
A sè dunque gli chiama, e lor favella: Stata è da voi la mia sentenza udita, Ch'era non di negare alla donzella, Ma di darle, in stagion matura, aita. Di nuovo la propongo, e ben puote ella Esser da voi, come devria, seguita ; Chè nel secol mutabile e leggiero Costanza è spesso il variar pensiero.
Ma se stimate ancor che mal convegna Al vostro grado il rifiutar periglio; E se pur generoso ardire sdegna Quel, che troppo gli par tardo consiglio; Non avverrà ch'a forza io vi ritegna; Nè quel, che già vi diedi, or mi ripiglio: Ma sia con tutti voi (com'esser deve) Il fren del nostro imperio lento e leve.
Dunque lo starne, e'l girne io son contento, Che dal vostro voler libero penda.
Ben vo'che pria facciate al Duce spento Successor nuovo, e di voi cura ei prenda. Ed invitto di forza e d' ardimento
I diece scelga a far del torto emenda; Ch' in questo il sommo imperio a me riservo: Non sia l'arbitrio suo per altro or servo.
Così disse Goffredo: e'l suo germano, Consentendo ciascun, risposta diede: Com'è tua propria, o Cavalier sovrano, Virtù, ch' in alto intende, e lunge vede; Cosi il vigor del core e della mano, Quasi debito a noi, da noi si chiede: E saria la matura tarditate,
Ch'in altri è providenza, in noi viĺtate.
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