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LXXXVII

Ed ove altri da' lacci il piè ritiri,
E gli arditi pensier temendo affrene,
Apre un benigno riso, e'n dolci giri
Volge le luci, più del Ciel serene;
E que'suoi pigri e timidi desiri
Sprona, ed affida la dubbiosa spene:
Ed infiammando l' amorosa voglia,
Sgombra ogni gel, che la paura accoglia.

LXXXVIII.

Ad altri poi, ch' audace il segno varca,
Scorto da cieco e temerario Duce,
De' cari detti, e de' begli occhi è parca;
E seco tema e riverenza induce:

Ma fra lo sdegno, onde la fronte è carca,
Pur anco un raggio di pietà riluce ;
Ond' egli per timor nulla dispera,
E più s'invoglia, ove più sembri altera.

LXXXIX.

Stassi talvolta tacita e pensosa,

E'l volto, e gli atti suoi compone, e finge,
E qualche finta lagrima amorosa

Ora tragge su gli occhi, or la rispinge,
Come chi teme, e lagrimar non osa:
Così mille alme semplicette astringe;
E'n foco di pietà strali d'amore

Dolci contempra, indi gli avventa al core.

XC.

Poi, siccom' ella a quei pensier s'invole,
E novella speranza in lei si deste,
Volge agli amanti il piede e le parole,
E di lieto color s'adorna e veste,
E lampeggiar fa, quasi un nuovo Sole,
Il chiaro sguardo, e 'l bel viso celeste,
Sulla nebbia del duolo oscura e folta,
Che s'era d' ogn' intorno a' cori accolta.

XCI.

E mentre dolce parla, e dolce ride,
E con doppia dolcezza alletta i sensi,
Quasi dal petto l'alma e'l cor divide,
Non prima usata a que' piaceri intensi.
Ahi cieco Amor! ch' egualmente n'ancide
L'assenzio e'l mel, che tu fra noi dispensi;
E col tuo fero varíar, mortali

Tu porgi altrui le medicine, e i mali.

XCII.

Fra sì contrarie tempre in ghiaccio e'n foco,
In riso e'n pianto, e fra paura e spene,
Gl'inforsa, e rota, e i lor tormenti in gioco
L'ingannatrice donna a prender viene.
E s'alcun mai con dir tremante e fioco.
Osa parlando appalesar le pene,

Finge, quasi in amor rozza e inesperta,
Non veder l'alma ne' suoi detti aperta.

XCIII.

O pur le luci vergognose e chine,
E'l volto d'ouestate orna e colora,
E quasi cela altrui le calde brine
Sotto le rose, ond' il bel viso infiora;
Come spargendo al Ciel l'aurato crine
Nell' Oriente appar la bella Aurora :
E'l rossor dello sdegno insieme n'esce
Colla vergogna, e si confonde e mesce.

XCIV.

Ma se prevede, e di lontan s'accorge
D'uom, che tenti scoprir l'accese voglie,
Or gli s'invola; or loco, e modo porge,
Onde ragioni, e subito il ritoglie.
Così il di tutto in vano error lo scorge,
E stanca ogni speranza al fin gli toglie:
Egli riman, qual cacciator, ch'a sera
Perdute ha l'orme di seguita fera.

XCV.

Queste fur l'arti, onde mille alme e mille
Prender, quasi di furto, allor poteo;
Anzi pur con queste arme essa rapille,
Ed a forza d'Amor serve le feo.

Qual meraviglia or fia, se'l fero Achille
D'Amor fu vinto, ed Ercole e Teseo?
Se qual più casto ancor la spada cinge,
L'empio ne' lacci suoi lega e distringe.

LA

GERUSALEMME

CONQUISTATA

CANTO SESTO

ARGOMENTO

Ch'a Guidon successor Riccardo sia
Non vuol Gernando, ch'esso ancor v'aspira;
Ma quegli, che l'incarco omai sentia,
Fa col ferro vendetta, onde egli spira
L'alma nel sangue. A tal novella ria
Turbasi il Duce, e 'n bando si ritira
L'uccisor, che prigion sdegna ; si parto
Co'dieci Armida, e più ne trae con arte.

I.

Mentre in tal guisa i Cavalieri alletta
Nell' amor suo l'insidiosa Armida ;
Nè solo i diece a lei promessi aspetta,
Ma di seco menarne altri confida;
Volge tra sè Goffredo a qual commetta
La dubbia impresa più secura guida;
Į Che di tanti guerrier la copia, e 'l merto,

E'l desir di ciascuno il fanno incerto.

II.

Nè d'onor, nè d'arbitrio alcun dispoglia;
Ma come dritto estima, a tutti impone
Ch' a suo senno si scelga, anzi a sua voglia,
Chi successor fia eletto al buon Guidone;
Così di lui non fia ch'altri si doglia,
Ch'un medesmo voler sia freno, e sprone,
Spingendo alcuno, alcun tenendo a forza;
Se pur leggi ha virtù, cui nulla sforza.

III.

A sè dunque gli chiama, e lor favella:
Stata è da voi la mia sentenza udita,
Ch'era non di negare alla donzella,
Ma di darle, in stagion matura, aita.
Di nuovo la propongo, e ben puote ella
Esser da voi, come devria, seguita ;
Chè nel secol mutabile e leggiero
Costanza è spesso il variar pensiero.

IV.

Ma se stimate ancor che mal convegna
Al vostro grado il rifiutar periglio;
E se pur generoso ardire sdegna
Quel, che troppo gli par tardo consiglio;
Non avverrà ch'a forza io vi ritegna;
Nè quel, che già vi diedi, or mi ripiglio:
Ma sia con tutti voi (com'esser deve)
Il fren del nostro imperio lento e leve.

Y.

Dunque lo starne, e'l girne io son contento, Che dal vostro voler libero penda.

Ben vo'che pria facciate al Duce spento
Successor nuovo, e di voi cura ei prenda.
Ed invitto di forza e d' ardimento

I diece scelga a far del torto emenda;
Ch' in questo il sommo imperio a me riservo:
Non sia l'arbitrio suo per altro or servo.

VI.

Così disse Goffredo: e'l suo germano,
Consentendo ciascun, risposta diede:
Com'è tua propria, o Cavalier sovrano,
Virtù, ch' in alto intende, e lunge vede;
Cosi il vigor del core e della mano,
Quasi debito a noi, da noi si chiede:
E saria la matura tarditate,

Ch'in altri è providenza, in noi viĺtate.

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