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E la tua dignità disprezzi, e perdi,
Ligio omai fatto del peccato, e servo?
Perchè te stesso prigionier cattivo
Fai di Satanno, in sue catene avvolto?
Se già nascendo sei Principe detto
Delle cose create, e re terrestre ?
Perchè, quasi gettando, a terra spargi
Quel, c'ha nostra natura in sè più degno
Di riverenza, e di sublime onore?

Qual all'imperio tuo prescritto in terra
È fine? o pur nell'aria, o 'n mar profondo?
Se ben te stesso, e lui misuri, e scorgi,
Non hai tu penne da volar nel cielo;
Ma l'ardita ragion nulla ritiene.
Questa coll' ali sue trapassa a volo
Non pur dell'aria i più ventosi campi,
Ma del ciel gli stellanti, ed aurei chiostri .
E via men cupo, e men profondo 'l mare
È del suo peregrino e vago ingegno,
Che va spiando dentro a' salsi regni
I secreti dell' onde, e i seni, e i fondi,
E le sue occulte meraviglie: e quindi
Vittorioso alfin ritorna in alto,
Di saper ricco, e d'immortal tesoro.
Così per arte dell'umano ingegno
Prende tutte le cose, e fa soggette.
E disse Dio di nuovo: Ecco a voi diedi
Ogu' erba, che da seme in terra sparso
Germogli, ed ogni pianta, in cui sembianza
È di sua stirpe e quinci 'l cibo e l'esca

Avrete e 'l vitto insieme ancor n'avranno
I volanti del ciel sublimi augelli,
E i più gravi animai, che 'n sulla terra

Muove, e trasporta l'anima vivente.
E'n questa guisa nell'antico stato
Dell' innocenza, anco innocente 'l cibo
Non macchiato di sangue, o d'empia morte
Contaminato, o da rapina ingiusta,
Fu conceduto all'uomo, e dato insieme
All'animal, che senza sdegno ed ira
Era soggetto al mansueto impero.
Non uccideva ancor d'erba nocente
Maligno tosco, o pur d'orribil angue.
Ma tutto quel, che producea nel grembo
La madre terra, era salubre, e caro.
Nè tinto ancor s'avea l' artiglio, e i denti
L'affamato leone, o 'l lupo, o'l orso,
Nè l'avvoltojo allor da corpo estinto
Cercava 'l cibo, perchè morto ancora
Non era alcuno, e delle morte.membra
Non era ancor molesto, e grave 'l lezzo :
Ma pascolar ne' verdi erbosi prati,
In guisa di canori e bianchi cigni,
E siccome veggiam talvolta i cani,
Cui la natura è mastra, andar pascendo,
E ritrovar la medicina occulta:

Cosi

pascevan quei l' erbe novelle,
Ch'or son voraci di sanguigno pasto.
Non si faceva ancora inguria in caccia,
Non eran tese ancor l'insidie ascose
Alla selvaggia, e solitaria vita.

E i feroci animali all' uomo amici
Tutti con lieto e con benigno aspetto
Placidi, umíli ivano errando intorno
Ubbidienti a quel si giusto impero.
Perchè non solo re d'orride belve,

E di serpenti, o pur d'augei sublimi,
E di volanti in mare umidi pesci

Era l'uom primo: ma signore, e donno
Ne'proprj affetti avea lo scettro, e 'l regno,
Ei suo' proprj pensier teneva a freno,
Saldo e costante, imperioso e grave.
Ma poichè ribellante al santo impero
Del Creator sprezzò l'alto divieto;
A lui mostrarsi ancor ribelle in guerra
L'orride belve: e le caduche membra,
Che strugger poi dovea l' orrida morte,
Altro cibo nutria di sangue asperso,
Cibo mortale, a' miseri mortali
Dato per esca in men felice stato,
Dappoichè l'acque nel diluvio accolte
Ondeggiando coprír le piagge, e i monti.

Ma perchè l'uom, divina e sacra Immago,
L'alta origine prisca anco riserba,
Non perde 'l natural suo primo impero
Sovra le fiere e può con giusta legge,
Anzi con giusta e conceduta guerra,
Farne preda e rapina, e cibo, e veste
Alle sue faticose e dure membra.
Nè questa legge è ingiuriosa, ed empia,
Ma di Natura, anzi del Re superno,
Che fece serve all'uom l'orride belve,
E le gregge, e gli armenti, e i vaghi augelli,
E gli abitanti ancor del mare ondoso.
Così fu fatto. E Dio conobbe, e vide
L'opere sue perfette. E'l Sesto Giorno
Ebbe qui fine, ed egli in sè riposo.

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LE

SETTE GIORNATE

DEL

MONDO CREATO

GIORNATA SETTIMA

NELLA QUALE, TRATTANDOSI DEL GIUDICIO FINALE, E DELLA GLORIA ETERNA, SI DIMOSTRA IL FINE PER CUI FU DA DIO CREATO L'UOMO.

ARGOMENTO

S'introduce l'Autore dalle maraviglie degli An

fiteatri di Roma a quella del mondo; mostran do che la cognizione degli antipodi e d'altri ignoti paesi, la quale aver non si può dal girar de' Cieli, si ottiene dalla mente, che contempla Iddio. Epiloga le opere de' sei giorni passati; ed asserendo che Dio si riposò nel settimo, in niuna altra delle cose create, nelle quali assegna il continuo moto, pone il divino riposo, fuorchè nell' uomo, in cui viene figurata la morte di G. Cristo, prima della quale doveva egli umanarsi. Mostra che niuna cosa s'acqueta in se medesima, ma in Dio; adducendo il perchè Dio riposasse nell'uomo, terminando in lui la creazione de'sei giorni; e disprezzando gli aritmetici, passa all' uso degli antichi circa il numero settenario, mostran

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