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XLVII.

Questi, preso di me l'alto governo,
Tenero del mio onor parea cotanto,
Che d'incorrotta fe, d'amor paterno,
E di pietate avea la fama e'l vanto :
O che'l maligno suo pensiero interno
Celasse allor sotto contrario manto;
O che sincere avesse ancor le voglie,
Perch' al figliuol m'ebbe promessa in moglie.

XLVIII.

lo crebbi, e crebbe il figlio; e mai nè stile
Di cavalier, nè nobil'arte apprese :
Nulla di pellegrino, o di gentile

Gli piacque mai, nè mirò in alto, o intese.
Sotto difforme aspetto animo vile,
E'n cor superbo avare voglie accese,
Villan diletto, e di virtù dispregio,
I pregi fur del mio amatore egregio.

XLIX.

Ora il mio buon custode ad uom si degno
Unirmi in matrimonio in sè prefisse,
E farlo del mio letto e del mio regno
Fido consorte; e a me più volte il disse.
Usò la lingua, e l'arte, usò l'ingegno,
Perch'il bramato fine indi seguisse;
Ma promessa da me non trasse mai,
Anzi ritrosa ognor tacqui, o negai.

L.

Partissi alfin con un sembiante oscuro,
Onde l'empio suo cor chiaro trasparve;
E ben l'istoria del mio mal futuro
Leggergli scritta in fronte allor mi parve.
Quinci i notturni miei riposi furo
Turbati ognor da strani sogni e larve;
Ed un fatale orror nell' alma impresso
M'era presagio de'miei danni espresso,

LI.

E'n sogno m'apparia, come chi langue,
Pallida imago, e dolorosa in atto;

Quanto cangiata (oimè!) nel volto esangue
Da quel si adorno, ch'io vedea ritratto.
Fuggi, figlia (dicea ), fuggi dell' angue
Fuggi il tosco mortal; deh fuggi ratto :
Ciò che s'indugia è per vergogna e danno,
Anzi per morte: ah! fuggi empio tiranno.

LII.

Ma che giovava (oimè!) che del periglio
Vicino omai fusse presago il core,
Se cedea dubbia in ritrovar consiglio
La mia tenera etate al mio timore?
Prender fuggendo volontario esiglio,
E ignuda uscir del dolce albergo fore,
Grave era sì, che fea minore stima

Di chiuder gli occhi, ove gli apersi in prima.

LIII.

Temea, lassa! la morte; e non avea

( Chi'l crederia?) poi di fuggirla ardire:
E scoprir la temenza ancor temea,
Per non affrettar l'ora al mio morire.
Così inquieta e torbida traea

La vita in un continuo martire,

In guisa d'uom, che l'empio ferro attenda Sul collo, e morto sembri anzi che scenda.

LIV.

In tale stato o fosse amica sorte,

O ch'a peggio mi serbi il mio destino,
Un de' ministri della real Corte,

Nato in Soria di genitor Latino,

Mi scoperse ch' il giorno, all' empia morte
Dal tiranno prescritto, era vicino;
E ch'egli a quel crudele avea promesso
D'avvelenarmi a mensa il giorno istesso.

LV.

E mi soggiunse poi ch'alla mia vita,
Sol fuggendo, allungar poteva il corso;
E perchè altronde io non sperava aita,
Pronto offría se medesmo al mio soccorso.
E confortando mi rendè sì ardita,
Che vergogna e timor lentaro il morso;
E fanciulla ed incauta osai gir seco,
La patria e'l zio fuggendo all'aer cieco.

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LVI.

Sorse la notte oltra l'usato oscura,
Che sotto l'ombre amiche ne coperse;
Onde con due donzelle uscii sicura,
Compagne elette alle fortune avverse.
Ma pur
indietro alle paterne mura
Le luci io rivolgea di pianto asperse;
Nè della vista del natío terreno,
Partendo, saziar poteami appieno.

LVII.

Fea l'istesso cammin l'occhio e 'l pensiero ;
E mal suo grado il piede innanzi giva:
Siccome nave, che improvviso e fero
Vento discioglia dall'amata riva.

La notte andammo e'l dì, che segue, intero,
Per lochi, ov'orma altrui non appariva:
Ci ricovrammo in un castello alfine,
Ch'oltra l'Eufrate è quasi ermo confine.

LVIII.

È d'Aronte il castel, ch' Aronte fue

Quel, che mi trasse di periglio, e scorse.
Ma come me fuggito aver le sue
Mortali insidie il traditor s'accorse;
Acceso di furor contra ambedue,
Tanta e sì atroce colpa in noi ritorse,
Ed ambo fece rei del fallo iniquo,

Onde'l condanna un suo pensiero antiquo .

LIX.

Disse ch' Aronte io avea co' preghi spinto
Fra sue bevande a mescolar veneno;
Per non aver (poich' egli fosse estinto)
Chi legge mi prescriva, o tenga a freno,
E ch'io sciogliendo alla vergogna il cinto,
Volea raccormi a mille amanti in seno.
Ahi, che fiamma del Cielo anzi in me scenda,
Santa onestà, ch'io le tue leggi offenda.

LX.

Ch'avara fame d'oro, o sete insieme

Del mio sangue innocente il crudo avesse,
Grave m'è sì; ma viepiù 'l cor mi preme
Ch'il mio candido onor macchiar volesse.
L'empio, che non invan sospetta e teme,
Così le sue menzogne adorna e tesse
Nella città del ver dubbia e sospesa,
Che non è chi per me faccia difesa.

LXI.

Nè perchè usurpi il bel paese, e'n fronte
Già gli risplenda la real corona,

Fin però pone a' miei gran danni, all' onte;
Sì la sua ferità l'infiamma e sprona.
Arder minaccia entro il castello Aronte,
Se di proprio voler non s'imprigiona;
E dovunque io mi fugga, o mi dilegue,
Le mie sparse fortune ancor persegue.
E dice che lavarsi omai dal volto

LXII.

Sol col mio sangue la vergogna crede;
E ritornar nel grado, ond' io l'ho tolto,
L'onor de' Regi antichi, a cui succede.
Ma il timor n'è cagion, ch'a lui ritolto
Non sia lo scettro, ond' egli è falso erede:
Quasi il mio precipizio alto sostegno
Sia colle sue ruiné a nuovo regno.

LXIII.

E ben quel fine avrà l'empio desire,
Che già il tiranno ha stabilito in mente;
E saran nel mio sangue estinte l'ire,
Che nel mio lagrimar non fiano spente;
Se tu nol vieti. A te rifuggo, o Sire,
lo misera fanciulla, orba, innocente:
E questo pianto, onde ho questi occhi aspersi,
Vagliami sì, che'l sangue io poi non versi.

LXIV.

A te concede il Cielo, e dielti in fato
Poter, voler sol di giustizia amico :
Salvami dunque (e ne sarai lodato)
In caste membra l'animo pudico;
E ritogli il mio regno a quell'ingrato,
Ch'è d'onestate, e tuo, crudel nemico.
Basta, eletto fra gli altri, un fido stuolo,
Tanto estimo l'insegne e'l nome solo.

LXV.

Per questi piedi, onde i superbi, e gli empi
Calchi; per questa man, ch'il dritto aita;
Per le vittorie, e per quei sacri Tempi,
Ch'aspettano or da te pietosa aita ;
Il mio desir tu, che puoi solo, adempi,
Salvando omai questa infelice vita.
Ma se voi la giustizia ancor non move;
Nè pianto, nè pietà, Signor, mi giove.

LXVI.

Ciò detto, tace; e la risposta attende,
Con atto, ch'in silenzio ha voce, e preghi.
Goffredo il dubbio cor volve, e sospende
Fra pensier varj, e non sa dove il pieghi:
Teme i barbari inganni ; e ben comprende
Che non è fede in uom, ch'a Dio la neghi :
Ma d'altra parte in lui pietoso affetto
Si desta, che non dorme in nobil petto.

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