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ro Dolce soggetto alle censure, e fra gli altri del suo contrario, dico del Ruscelli: il quale anche tacciollo in un troncamento in n, avendo detto nella sua traduzion di Ovidio:

E più che mille testimon ragione;

dicendosi dal Ruscelli: Ove voi dite testimon nel maggior numero, in vece di testimonj; che lasciandovi poi masticarlo a modo vostro, mi basta di dirvi insomma, ch'è grandissimo errore di lingua, non solamente di lingua toscana e regolata, ma di qualsivoglia contado d'Italia (1). Ora per far chiaro che nella voce immagin non errasse il Tasso, come il censore si persuade, diciamo che que troncamenti in n riescono disdicevoli, che in certo modo mostrano asprezza nel verso. Ma conobbe assai bene il Tasso, a cui non posso credere che questa regola non fosse nota, che con tal mozzamento dolcezza, anzichè no, il verso ricevesse; onde a bello studio il fece, dir ben egli potendo:

Sotto l'imago sua d'uscir son certa;

non guastando in cosa alcuna il verso: sapeudosi bene, che la voce imago, quantunque latina, sia stata' da tutti gli ottimi scrittori usitata. Così il Pe

trarca:

Ch'io senta trarmi dalla propria imago (2). E prima di lui Dante:

Fecer malie con erbe e con imago (3). Pur riuscendo al poeta assai più languido il verso, si contentò di romper la regola per compiacere al suono: se pur regola può dirsi quella, che i buoni scrittori non usarono. Disse l'Ariosto:

Senza pensar, che sian l'immagin false (4). Ma per far conoscere che molto appannato fu dello Stigliano l'occhiale, e che troppo stiracchiato mostrossi il Ruscelli, con gli altri che ebbero la stessa opinione, per maggior difesa del Tasso parimente, molto più vogliamo soggiugnere. Volle Tommaso

(1) Ruscelli, dis. 3 al Dolce. (2) Petrarca, canz. 4. (3) Dante, Inf. can. 20. (4) Ariosto, Fur. c. 8.

Stigliano fare il riprensore del Marino, quando non seppe emendar se stesso. Non diss' egli, inciampando nello scoglio, che altrui aveva avvertito, ordin per ordine? E forse nol mostrò all'istesso Marino, a cui egli risponde ?

Toccai con tosca man l' ordin sonoro (1).

E quanto dolce suono faccia man l'ordin, altri se'l vegga. E se il Tasso si servi della medesima voce accorciata, mostrò di aver orecchio maestro, mostrando dolcezza nel suono:

Ordin di logge i demon fabbri ordiro (2). Egli è vero, che malamente si mozzano que' nomi che finiscono in anno, poichè facendogli terminare in n, se ne hanno da togliere due lettere, e rendono poco piacevole il suono. Onde non ben si dirà an, per anno; affan, per affanno; tiran, per tiranno, come malamente detto hanno alcuni . Ed in ciò con ragione fu dal Ruscelli il Dolce ripreso (3), avendo detto:

Se tiran di signore ei non diventa .

Il che si fece da lui spesse fiate. Nel quale scoglio urto parimente il Grillo, dicendo.

Va l'alma errando, ove il tiran l'appella (4). Che se in alcune stampe del Furioso dell' Ariosto si legge:

Il signor e'l tiran di quel castello;

per errore di stampa fu avvertito, avendo a dire:

Il tiranno e 'l signor di quel castello. Ma veggiamo con quanta poca ragione l'oppugnator Ruscelli tacciasse il Dolce, che detto avesse testimon; chè non riuscirà vano a questo proposito, anche per difesa del luogo del Tasso di già censurato. Si diede il Ruscelli a credere, che sempre a dire s' avesse testimonio, e testimonii, e non mai altrimente; ma s'ingannò, perciocchè dir si può anche testimone e testimoni, siccome parimente si dice demo

(1) Stigl. Rime. Risp. al Marino. (2) Canto 16, st. 1. (3) Ruscelli, disc. 3 al Dolce. (4) Grillo, Rime spirituali,

son. 22.

e ri

nio e demone. E mi maraviglio assai, che un uomo che faceva tanta professione di lingua, e che aveva tante fiate lette e rilette le rime del Petrarca, formato il Decameron del Boccaccio, non osservasse questa voce così tronca poter benissimamente stare, coll'autorità de'maestri. Si dice dal Petrarca in una canzone:

O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi ;
O'testimon della mia grave vita (1).

Ed il Boccaccio in una canzone altresì nel fine della giornata nona disse:

Ma i sospiri non son testimon veri.

Ed il Bembo, che fu ottimo maestro delle cose di nostra lingua, se ne servì ancora egli nel minor numero, dicendo:

Che non sia testimon del mio cordoglio (2). Del modo stesso dissesi da Dante demon:

... Maestro, tu che vinci

Tutte le cose, fuor che i demon duri (3); imitato dal Tasso nel verso antedetto:

Ordin di logge i demon fabbri ordiro.

Egli però è certo, che i nomi che terminano in onte, non debbano in guisa alcuna accorciarsi, e farli terminare in n. Si persuase uno studioso di belle lettere, leggendo nel Furioso dell' Ariosto:

Ed era sparso il tenebroso rezzo

Dell' orizon fin all'estreme cime (4),

che orizon fosse voce accorciata da orizonte: il che è falsissimo, essendo accorciata da orizone, voce usata da Dante, il quale disse parimente Caron:

E'l Duca a lui: Caron, non ti crucciare (5). Ed altrove :

E però se Caron di te si lagna (6); la qual voce viene accorciata da Carone, siccome vien notato dal Mazzoni, dall' Alunno, tri. Ma difender io non saprei Dante, quando disse

e da al

(1) Petr.canz. 18. (2) Bembo, Rime. (3) Dante, Inf. c. 14. (4) Can. 31, st. 22. (5) Dante, Inf. can. 3. (6) Ibid.

Feton per Fetonte, se non iscusarlo per la necessità della rima, che fa dir delle strane cose a' poveri poeti. Diss' egli:

Che mal non seppe carreggiar Feton (1); rimando con Sion. Pur trovo che Giovanni Villani abbia detto Laumedon per Laumedonto, nelle prose delle sue storie (2). Da tutta questa mia digressione conoscasi, che di miglior peso riesca l'accorciamento fatto dal Tasso nella voce immagin, che gli accennati di così ottimi scrittori. E benchè si sia detto da molti maestri di lingua, che le voci sdrucciole non debbano troncarsi; pure l'uso insegna il contrario: ed io per non più dilungarmi sopra ciò, non rapporto qui copia grande di esempli. Termino con questo dell' Ariosto, che mi si fa primo davanti:

Alla giovin dolente persuade (3);

troncando la voce giovane con maggior sconvenevolezza, che di immagine non fece il Tasso.

OPPOSIZIONE XXVI.

(St. 92.) « Col durissimo acciar preme ed offende « Il delicato collo » ec.

Non mi ricordo aver mai letto ne' purgati libri de' buoni scrittori, da cui norma prender dobbiamo, acciaro, ma sempre acciajo; onde il Tasso, con aver detto acciar, ha non picciolo errore commesso, a mio giudizio.

RISPOSTA

Egli è vero, che regolatamente dir si debba acciajo; pure il dire acciaro si concede talvolta aʼrimatori, per la necessità che tengono ne' versi. Il Pergamino che ben l'osservò, ce ne diede il parere, dicendo: In prosa sempre si è scritto acciajo, ed in

(1) Purgat. Can. 4. (2) Vill. lib. 1, cap. 12. (3) Ariosto, Furioso, Can. 24.

verso si trova ancora acciaro (1). Nè mancano cento esempli per difesa del Tasso, ed io ne apporterò taluno per soddisfare di vantaggio il censore, e mostrar che questo luogo del poeta non riesca di scarso peso, come egli si crede. Si disse da Luigi Alamanni nell' Avarchide:

Le solerette pria del più sicuro

Acciar, che porti il Norico terreno,
Gli arma di sotto i piedi (2).

E poco appresso nel medesimo modo:

Poscia alla regia gola ha guardia messo

il

Di saldo acciar, che non le noccia offesa (3). E se leggerassi il Furioso di Lodovico Ariosto, quale con gran purgatezza ed accortamente fu rive, duto e corretto dal Ruscelli, troverassi che in cento luoghi egli abbia detto acciaro. Dic' egli:

L'osso e l'acciar ne va, che par di ghiaccio (4). Ed altrove parimente :

D'un bel muro d'acciar tutta si fascia (5). Ed è pur vero, che nel verso riesca più acconcio e di maggior vigore il dire acciaro, che acciajo, come veder si può, e particolarmente allora che bisogna troncarlo, e dire acciar; del quale essendosi servito i poeti, perciocchè loro fu conceduto da coloro che regole al ben parlare imposero, volle parimente il Tasso servirsene, come poeta ch' egli era degnissimo, siccome viene stimato da tutti coloro che spassionatamente dan giudizio delle fatiche altrui. E come tale conceder se li debbono quelle licenze, che agli altri suoi pari furono concedute.

OPPOSIZIONE XXVII.

(St.96.) « La voce femminil sembiante a quella ».

Noto in questo luogo la voce sembiante, presa, siccome pare, invece di simile o somigliante, allorchè

(1) Pergam. Memor. (2) Alaman. Avarch. lib. 16, st. 4. (3) e st.6.(4) Ariosto, can. 1, st. 10.(5) e can. 4. st. 12.

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