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principio quasi del tutto vana e mendace: giacchè propone di cantar l'ira, che in Achille si destò nel venir a contesa con Agamennone; che fu per l'involata Briseide. A questo si aggiunge, che sebbene Omero nella proposizione dà chiaro segno di voler cantar l'ira di Achille; tuttavia, se si mira all'esecuzione, e al fatto istesso che molto più dee rimirarsi, par che ogni cosa incammini all'espugnazion d'Ilio, alla ricuperazione d'Elena. Laonde per questo stanno continuamente facendo consiglio i Dei, e disputando sempre, se si debba permettere l'espugnazione: per questo vengono a contesa, combattendo da una parte e l'altra: per questo anco si combatte più volte fra' Greci e Trojani: e ( quello che val per tutto ciò che si potesse addurre) per questo si tenta e procura sempre la riconciliazione di Achille, vedendosi che senza di lui non si poteva domare Ettore, ed espugnar Troja. Tantochè Orazio, maestro pur di quest'arte, riputò e chiamò Omero scrittore della trojana guerra. Ma che dico io di Orazio ? Virgilio stesso, il quale ne'sei ultimi libri assai scopertamente imito l'Iliade, siccome ne' sei primi fe'quasi una latina Odissea, termiuò il poema non solo colla morte di Turno, ad imitazione della morte di Ettore, ma ancora con l'incendio e impresa espugnazione di Laurento, città regia di Latino, e difesa insieme da Turno: dove si vede, che l'espugnazione o conquista d'Ilio fu da Virgilio imitata e rappresentata, come fine e termine dell' Iliade, o almeno fu riputata debita sì, ch'egli ebbe per vizio il vederla tralasciata da Omero. E se pur la città di Laurento non fu da Enea in tutto arsa e distrutta, anzi nè anco interamente espugnata; ciò avvenne, perchè ritornando Turno a duello con Enea, questi (giacchè uccidendo Turno restava, conforme a'patti, di Livinia marito, e della città e reggia pacifico erede) ebbe per bene di soprassedere dall' incendio e strage, siccome anco da spogliar Latino del regno. E pertanto, o che l'azione dell' Iliade fosse la guerra trojana tutta, ovver parte, o l'ira d'Achille; l'azione o favola nou

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si può riconoscere per intera e perfetta. Ma non così avviene nel bel poema del nostro gran Torquato; posciache la guerra ed espugnazione, ovver liberazione gerosolimitana, seguita sotto Goffredo, ha il suo natural principio, e il mezzo e fine così proprio e naturale, che non può desiderarsi azione più compita e perfetta. Laonde dal principio, che è l'elezione di Goffredo per capitano dell' impresa, per chiarissimi, debiti e proporzionati mezzi, che son la rassegna dell'esercito, l'inviamento dell'istesso alla Città santa, con gli assalti dati e le battaglie fatte co' nemici (ehè altre cose trapposte, come vedrassi, o son particelle e membra delle predette, o appartengono agli episodj), si perviene al proposto e desiderato fine dell'espugnazione, e al scioglimento de' voti al sacrosanto Sepolcro. Insomma l'elezione fatta di comune consenso nella persona di Goffredo, acciocchè sia principe e capitano dell'impresa gerosolimitana, è principio cosi proprio e accomodato, che non solamente non segue di necessità ad altra cosa propria di cotal' impresa; ma da esso poi con molto acconcia maniera, e naturalmente ne nasce e deriva quanto poi segue fino all'espugnazione. All'incontro l'espugnazione e liberazione della santa Città, oltre non aver altro dopo di sè, segue così naturalmente e dal principio e dai mezzi proposti, che fin più acconcio non può desiderarsi. Finalmente la rassegna, l'inviamento, gli assalti, le battaglie vanno così naturalmente dopo il già detto principio, e avanti il proposto fine, che senz'alcun dubbio ne appajono ottimo mezzo. Anzichè concorrendo a costituir Goffredo principe e capo dell' esercito ed impresa santa, e la divina provvidenza ed elezione, e il celeste mes saggiero interprete e ministro della volontà divina, ed il concilio de' principi e capitani, col consenso e applauso dell'esercito tutto; questo principio riesce tanto più bello e nobile, quanto ch'egli ebbe tutto il concorso degli umani e divini favori. Onde non è poi maraviglia, che a così stabile e accomodato principio seguisse corrispondente e proporzionato

fine. Nè mi opponga alcuno, che Torquato non cominci dal proprio e debito principio, giacchè (quant' alcun va dicendo) erano ben sei anni che in Chiaramonte sotto Urbano, per opera di Pietro Eremita, ebbe principio la risoluzione e disegno di far cotale impresa; e che perciò gli eserciti adunati in Calcedonia e di li passati in Asia, avanti di far l'impresa di Terra-santa, avevano di già acquistato Nicea, con Antiochia appresso e Tortosa, e fatto molte battaglie e imprese: perciocchè tutto questo risulta a favor di Torquato, ed a mostrar il suo fino e nobil giudizio nel formar ben l'azione. E questo per due efficacissime ragioni. La prima è, perchè qualor Torquato avesse cominciato a tessere il poema dall' adunanza di Chiaramonte, o pur anco dal passaggio di Calcedonia in Bitinia, avanti di potere spiegar l'impresa e liberazione gerosolimitana, li sarebbe venuto addosso maggiore mole di azioni e di cose, di quello che soffrir potesse un giusto poema: chè per simil cagione appunto Aristotile (1) lodò altamente Omero, come quello che molto saggiamente avesse eletto solo una particella della guerra trojana, e non tutta; essendochè altrimente fora riuscito il poema di troppo soverchia, anzi d'immensa graudezza, mancando l'opportunità di poterlo spiegar acconciamente, e con poetica ampiezza adornarlo, e arricchirlo coll' invenzione di belli episodj, come conviene: la qual ragione cade maravigliosamente nel caso di Torquato. L'altra è, perchè nè anco si porgeva occasione di far poema d' un'azione, sì per esser occorse molto diverse e principali battaglie ed imprese, e di più anco molti regj conquisti, de'quali ciascuno aveva la sua trasmutazion di fortuna distinta; come anco perchè Goffredo non era stato capo prima di questo tempo, nel qual si rivolser l'armi alla gerosolimitana impresa. E per tanto, avendosi proposto Torquato di cantar l'impresa gerosolimitana, conveniva che non d'altronde facesse

(1) Paragr. 125.

principio, che dall'elezione del capo; poichè quanto s'era fatto avanti, non era impresa propria di Goffredo: nè conveniva, anzi nè anco senza incorrere in qualche mostro si poteva tessere e unire il tutto insieme, se non peravventura quando i precedenti fatti ed imprese si fossero con digressione ed episodio intessute e trapposte. Sicchè Torquato per far poema e d'una sola azione e di giusta grandezza, e atto ad ornare e abbellir con episodj, non poteva d'altronde comodamente far principio. Insomma l'artificio della Gerusalemme liberata, per quanto tocca all'integrità e perfezione (chè di questa disputiam ora), a me sembra così nobile e bello, ch'io non saprei immaginarmi, che nè anco l'invidia trovasse agevolmente ove emendarlo: se però non dubitasse alcuno tuttavia, che l'ordine naturale servato dal nostro Torquato fosse piuttosto proprio dell'istorico, o altro tale scrittore, che conveniente al poeta. Di che essendo stato da noi sopra tal cosa dubitato già buona pezza, si dirà fra poco, mostrando che in ciò particolarmente il nostro Torquato è degno di molta lode: tanto è lontano, ch'ei non possa venir giustamente biasimato.

Ma già parmi di vedere, ch' altri ricorra all' Odissea, quasichè in questa e la materia sia evidente; sapendosi, che vi si cantano gli errori o peregrinaggi d'Ulisse ; e l'unità sia chiara, essendo cotali errori con bell' ordine dirizzati alla felicità, che poi dopo tanti travagli conseguisce in Itaca, e conseguentemente l'azione e favola sia intiera e perfetta, avendo il suo natural principio, mezzo e fine. Sicchè, qualunque giudizio si faccia dell' Iliade, l'Odissea (dirà alcuno) è quella, onde Omero resta non solo eguale, ma duce e maestro di qualunque altro abbia formato poema d'intera e perfetta favola. Ed io (se vale a confessarne il vero) temo grandemente, che appunto per questa istessa ragione Omero resti tuttavia al nostro Torquato inferior di gran lunga; posciachè nè la proposta materia delÏ'Odissea è così evidente e chiara, che

non rassem¬

bri di doppia azione e favola, siccome da altri è stato mostrato appunto nel precedente Discorso; nè il principio o mezzo (se la dottrina di Aristotile dee in ciò servir per regola e norma) ritiene il suo na turale e debito luogo: poichè, per lasciar i peregrinaggi di Telemaco, i quali ritengono pur luogo di principio, e principio poi assai ampio; gli errori d'Ulisse son cantati in guisa, che i mezzani formano il capo della favola, e i primi all' incontro formano il busto, sicchè appena il fine ritiene il · suo naturale stato e debito luogo. Benchè forse, a chi ben mira, nè anco il fine ritien debito luogo: posciachè essendosi di già Ulisse ridotto a felicità, con dar la morte a' Proci, e ricuperar la consorte, il figliuolo e la patria, colle sue tante ricchezze; a che di nuovo addurlo in nuovi tumulti e pericoli, sicchè li sia forza prender tuttavia l'armi, e con tanto pericolo combattere e spargere l'altrui sangue? Nè mi dica alcuno esser ben vero, che Aristotile ricerca nell'azione principio, mezzo e fine; con aggiunger, che principio sia quello, al quale seguono naturalmente l'altre cose, ma non però ha di necessità avanti di sè alcuna cosa, con tutto quello che già più volte si è divisato del mezzo e fine; ma che non per questo nega, che qualor sia fatta elezione di azione, fornita di debito e natural principio, mezzo e fine, si possa poi nel disporre le parti andar mutando l'ordine, se così torni ad uso, siccome fece appunto Omero e Virgilio; perciocchè Aristotile, dopo aver mostrato che cosa intenda per principio, mezzo e fine, il qual ricerca nell' azione e favola, quasi ch' ei temesse appunto ch'altri non restasse sospeso, o andasse cavillando, quanto alla disposizione, soggiunse: Δεῖ ἄρα της συνιστώλας εὖ μίθος, μήθ' ὁπόθεν ἔτυχεν άρχεσθαι μήθ' ὅπὲ ἔτυχε τελευτᾶν, ἀλλὰ κεχρῆσθαι ταῖς ἐιρημέναις ιδέαις: Bisogna dunque, che le favole ben composte non comincino da qualsivoglia parte, nè in qualsivoglia parte abbiano fine; ma che ben osservino le predette forme. Dove mostrò che l'azione non solo in se stessa

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