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delle altr' arti imitatrici, da niuno vengono esposte in modo, che Aristotile voglia l'imitazione o azione dover esser di uno, ma ben di una sola cosa. Laonde la voce vos in questo luogo deriva da ềv, che vuol dire unum, e non (com'egli finge) da is, che vale unus; significando (come ho detto) che l'azione dee esser di una cosa. Altrimente Aristotile non parlerebbe a proposito; perciocchè, avendo egli fino allora disputato dell'unità della favola, mostrando che non sia per l'unità dell'azione imitata; quivi passando a raccor la somma e conclusione di quanto aveva detto (chè ciò appunto mostra con quel modo di parlare pй ov), bisogna che dall'unità dell' azione inducesse la conclusione, e non dall'azione di un solo. Oltrechè confermando nell'istesso tempo la sua opinione coll' esempio delle altre arti imitatrici, con dire che queste ancora erano vos, non arebbe dovuto inferire e conchiudere (com'egli fa), che perciò l'imitazione eroica debba esser μaç pažεw, di un'azione, ma ben di un uomo solo: argomento evidente, che quelle ròs si vuol dire d'una sola cosa. Sicchè il vero sentimento di questa sentenza: Χρῇ ἦν χαθάπερ ἐν ταῖς ἄλλαις μιμητικαῖς, ἡ μία μίμησις ἐνὸς ἐστὶν, ἔτω και τὸν μῦθον. ἐπεὶ πράξεως μίμησίς ἐςτι, μias Tε Eval; con pace altrui, non è altro che questo: Bisogna dunque, che siccome nelle altre arti imitatrici l'imitazione è una,per esser d'una sola cosa; così la favola, giacchè è imitazion di azione, sia d'una sola azione. E così espongono queste parole gli espositori (che pur son molti, e tutti celebri, e bene intendenti di greca lingua), senza trarne alcuno. In modo tale, ch'io non so se non sospettare, che il difensor di Dante abbia così interpretate queste parole a bello studio, e per gran brama (che ben in altri quasi infiniti luoghi si va scorgendo) ch'egli aveva di difendere, ed in qualunque maniera far superiore la causa del sno Dante. Chè quando ciò non fosse stato, ben poteva egli come uomo non solo di molto varia ed esquisita lezione, ma anco assai versato in Aristotile, ricordarsi che Controv. T.1V,

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nè la repubblica, per aver tanta varietà di parti e di ministri, resta perciò d'esser una (tanto che Aaristotile ne fa larga contesa contra Socrate (1)); nè l'animale resta di esser perfettamente uno, per aver tale e tanta varietà, di parti e membra, che nè anco l'umana industria (giacchè le sole ossa arrivano quasi al numero di quattrocento) può annoverarle perfettamente. Che perciò Aristotile appunto al bello animale paragonò la bella favola: e questo si per altre cagioni, come in particolare per la varietà e proporzione delle parti, onde la varietà ne resulta. Sicchè il difensor predetto in questo luogo, come in altri assaissimi ch' io tralascio, mostrò veramente l'affetto e brama, ch' io diceva, verso il suo Dante. Che più? l'istesso italiano interprete (per ritornare al sopraddetto luogo) il qual fece larga menzione d'imitazione una, e di uno, non ebbe ardire di valersi di questo luogo, o in modo alcuno porre in dubbio, se quello vos écriv, s'intendesse d'un uomo, o d'una cosa: anzi confessò, e nell'istesso testo per levar ogni dubbio interpetrò, di una cosa; così lasciando scritto: Bisogna dunque, che così come nell'altr' arti rappresentative una è la rassomiglianza d' una cosa; così ancora la favola che è rassomiglianza d'azione, sia di una (2). Anzichè Aristotile, nè qui, nè in altro luogo della sua Poetica, si curò di prender a mostrare, che l'imitazion dovesse essere in alcuna maniera d'un solo: tanto è lontano, che mostrasse dovere esser d'un solo assolutamente, e senza soggetti o ministri (3). Ma ben nel ragionare tanto della Tragedia, quanto dell'Epopeja, prese a mostrare che doveva esser d'una sola azione, mostrando ciò a lungo e con molte ragioni; c riprendendo all'incontro que' poemi, i quali di più azioni eran composti. Ma che sto io a bada, giacchè Aristotile istesso mostra, che l'unità della favola non dee prendersi dall'unità della persona, ma dell'azio

(1) Lib. II, polit. ca. 1. (2) Parag. 173. (3) Ivi 50, 51, 124 e 125.

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ne? Certamente passando a ragionar dell'unità della favola, subito nel bel principio pose questa conclusione: Μῦθος δ' ἐστὶν εις, οὐχ ὥσπερ τινὲς ὅιοται ἐὰν περὶ ề`va ǹ (1); cioè, La favola è una, non come alcuni stimano, perchè si ragioni intorno ad una persona. E quindi passò a mostrar all'incontro che ben fosse una, per esser d'una sola azione. Nè però avvertisco questo, perchè io non riconosca per ottima la favola di una persona (come capo però, e sotto cui sian molti), ma perchè Aristotile non trasse l'unità della favola dall'unità della persona, siccome nè anco dall' unità del luogo e tempo dell'azione, ma dall'unità dell' azione istessa. Nè più forza ha l'altro luogo, dove pur si oppone che Aristotile, nel ridurre a somma l'argomento dell' Odissea, vada molto gagliardamente ponderando che Ulisse fosse solo, e così solo osservato, venisse da Nettuno perseguitato; anzichè da tal luogo l'opinion degli avversarj chiaramente si riprova: e che ciò sia vero, attendasi alle parole di Aristotile, ed intenderassi chiaramente. Le parole (sebben mi rammenta) son per appunto queste : Οδυσσέας μακρὸς ὁ λόγος ἐστιν. Α'ποδημένιος τινὸς ἔτη πολλὰ, και παραφυλαττομένη ὑπὸ τοῦ Ποσειδῶνος, και μόνο ὄντος, έπει δὲ τ οικοι ἔτως ἐχόντων, ὣςε τὰ χρήματα υπό μνηςήρων ἀναλίσκεσθαι, κὶ τὸν ὑιόν ἐπιβελεύεσθαι, αυτος ἀφικνείται χειμασθις, και αναγνωρίσας τινὰς, αὐτοῖς ἐπιθέμενος, αὖ τὸς μὲν ἐσώθη, τοὺς δ' ἐχθρὸς διέφθειρε. τὸ μέν ἴδιον τοῦτο. Τὰ δ ̓ ἀλλὰ, ἐπεισόδικ; ed in nostra lingua così suonano: Ľ Odissea è lungo sermone. Peregrinando un certo molti anni, ed osservato da Nettuno, e restato solo, ecco che quando appunto le sue cose di casa così passavano, che i suoi beni venivano consumati da' Proci, ed al figliuolo erano tese insidie, egli agitato da tempesta se ne venne: e riconosciuti alcuni, ed ingannandoli, salvò se stesso, ed i nemici uccise. E questo proprio dell' Odissea: appartenendo tutto il restante agli episodj. Queste sono le parole di Aristotile :

(1) Parag.50.

per le quali si vede, che quand'egli stimasse materia dell' Odissea sol quanto oprò Ulisse, dappoichè rimase solo, o vogliam dire dopo la perdita de compagni, primieramente non direbbe che l'Odissea era di uomo, il quale peregrinò molti anni, perciocchè il suo peregrinaggio cominciò co' compagni (siccome si racconta poi) da Troja, donde con gli stessi passò prima alli Ciconi, di poi ai Lotofagi, poscia a Ciclopi, da questi in Eolia, indi a' Lestrigoni, ove de' compagni perdè gran parte, da’Lestrigoni a Circe ed all'Inferno, e di qui di nuovo a Circe: e con trapassar le Sirene, Scilla e Cariddi, là dove li venne anco meno il restante de' compagni, fu trasportato in Ogigia, ove dimorò sett'anni con Calisso: ed al fine in meno di venti giorni trapassò a Feaci, e da questi in pochissimi giorni od ore ad Itaca sua patria. E per tanto, se il proprio ar gomento dell' Odissea si avesse a prender da quanto fece solo, non fora vero ch' ei peregrinasse molti anni, ma solo alcuni pochissimi giorni ; se pero i sette anni, che quasi immobile menò appresso Calisso, o pur qualche giorno, o piuttosto ora, la qual corse tra il romper la nave e il giungere a Calisso, non si ponesse per peregrinaggio di molti auni, e degli altri tanti pellegrinaggi non se ne facesse conto alcuno. Or chi dunque non vede, che Aristotile per peregrinaggio di molti anni intese i viaggi e l'azione dal partir di Troja fino al giunger ad Itaca ? e che non per altro quest'uomo, ancorchè illustre e famoso, vien descritto con nome di certo peregrinante di molti anni, se non perchè s'intenda, che l'azione dell'Odissea abbracciava peregrinaggi e di numero, e di luoghi, e di tempi, e di fatiche, e di pericoli amplissimi, sicchè perciò fossero pieni di maraviglia e stupore? E pertanto è cosa certa che, per giudizio d'Aristotile, Omero non ebbe altrimente mira di rappresentarci perappunto Ulisse come solitario, siccome gli avversarj vanno dicendo. Oltrechè non avrebbe detto Aristotile: Peregrinando un certo molti anni, ed osservato da

Nettuno; ma per servar l'ordine in questo, come anco fa nel restante, avrebbé detto, che ei fu osservato e perseguitato da Nettuno, e che peregrinò; perciocchè non peregrino mai solo, se non da poi che da Nettuno fu osservato, perseguitato, e di compagni e barca privato. E se pur intanto Aristotile nomina un solo, dicendo a' arоšпμйvтоs тivòs; ed Omero parimente invita la Musa a cantar quel suo politropo uomo e sagace, cioè Ulisse: chi non vede, che intese bene un capitano ed eroe, ma però capo di molti? nel modo appunto che Virgilio propone anche egli di cantar un uomo, il qual peregrinò da Troja e scorse molte fortune e travagli; e nondimeno, tuttochè di lui solo facesse menzione, intese d'un capitano con soldati e ministri. Ma che sto io a bada? Omero istesso nella proposizione dell'Odissea, descrivendoci quest'uomo, non canto egli:

Α' γνύμενος ἦν τε ψυχὴν και νὸςτον ἑταίρων,
Α'λλ' ἐδ ̓ ὡς ἑτάρους ἐῤῥύσατο ἴεμενός περ

Αυτῶν γὰρ σφετέρησιν αλασθαλίησιν ὅλοντο ; mostrando che usò ben ogni industria per conservar non solamente se stesso, ma ancora i compagni, e ricondurli seco; ma che, per molta brama e cura ch'egli ne avesse, non potè sottrarli dalla morte, essendo essi periti per loro stoltizia? Si di certo. Or chi dunque non vede chiaramente, che Omero ancora ebbe mira di cantar Ulisse come duce e capo di molti? e che siccome poi il giudiziosissimo imitator d'Omero, dico Virgilio, fece che Enea co' compagni scorresse tanti mari e pericoli; e Torquato indusse Goffredo a soffrir pur co' suoi compagni e soldati, pericoli e fatiche immense; cosi Omero cantò Ülisse come capo di molti? Ma per qual causa di grazia stimiamo noi, che Tor quato conchiudesse la sua bella proposizione con quelle parole:

Che favorillo il Cielo, e sotto i santi

Segni ridusse i suoi compagni erranti;

se non perchè avendo per cosa certa, che Omero

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