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Aufonius.

Totque putare meos, quot reor effe tuos.
Nefciat hos natos, numeret properantior-heres,
Teftamenta magis, quam pia vota, fovens:
Exemploque docens pravo juvenefcere natos,
Ut nolint patres fe quoque habere fenes.
Verum ego primaevo genitus genitore, fatebor
Supparis haec aevi tempora grata mihi.
Debeo quod natus, fuadet pia cura nepotis,
Addendum patri, quo veneremur avum.
Tu quoque, mi genitor, geminata vocabula gaude,
Nati primaevi nomine factus avus.

Exiguum quod avus. Faveant pia numina Divům,
Deque nepote fuo fiat avus proavus.

Largius et poterunt producere fata fenectam:

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Sed rata vota reor, quae moderata, magis.

I

Alga

Algarotti.

Algarotti.

Graf Francesco Ulgarotti, geb. zu Venedig, 1712; gest. zu Pisa, 1764; einer der geschmackvollsten neuern Schriftsteller der Italiåner, dem Friedrich der Große zu Pisa ein marmornes Denkmal mit der Inschrift: ALGAROTTO OVIDII AEMULO NEWTONI DISCIPULO, ses Ben ließ. Unter seinen Werken, die zu Livorno, 1763 ff. in acht Oktavbånden zusammen herauskamen, befinden sich auch Pistole in Verfi, durch, meistens moralischen, Inhalt und schönen Vortrag schågbar, die schon vorher zu Venedig, 1759. 12, besonders herausgegeben waren.

AL SIGNOR ABATE METASTASIO.

POETA

CESARE O.

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Dolce mi fu, Spirto gentil, tua voce,

E la dolcezza ancor dentro mi fuona,

Dico in quel giorno che di nobil laude
Onor tu fefti agli umil verfi, ond' io,
Colpa d'ingegno, il ver troppo scemai
Orazio non ugual d'Augufto al pondo.
Qual fia mio dir, dal tuo volume imparo,
De' bei verfi le vie; da te cui fpira
Amore i fenfi, e detta i modi Apollo.
Dai dorati palchetti e dall' arena
A te fa plaufo la leggiadra gente:
Lieta ch' omai per te l'Itale Scene
Grave paffeggia il Sofocleo coturno.
Quel è fra noi che per la via non muova
Delle lagrime dolci, allor çh' Enea,
Seguendo Italia i duri fati e i venti,
Tronca il canape reo, o allorch' Uliffe
Il nuovo Achille tuo che in trecce e'n gonna
Le Omeriche faville in petto volve

Dal fen d'Amor lo guida in braccio a morte?

Chi della Patria non prende i coftumi,
E le leggi ad amare, e l'aria, e i faffi
Dal Temistocle tuo? Chi non s'infiamma
Di Tito alle virtù, delizie ancora
Entro a' tuoi verfi dell' uman legnaggio?
Fra tanti plaufi tuoi, Spirto gentile,
Te non muova il garrire impronto et acro
Di lingua velenofa. Ogni più bella
Pianta degli orti onor, fpeme dell' anno,
Che cuopre d'ombra l'uom, di frutta il ciba,
Di vili bruchi è nido ancora e pasto.
Fra i Quintilj fra i Tucca e i buon Pifoni
Ebbe i Pantilj fuoi, ebbe i suoi Fannj
Il Venofino anch' effo: E or bianco Cigno
Dalla fonante Iberica marina

Dell' Invidia maggior, maggior del tempo
All' Iperboreo Ciel batte le piume.
Nuovo non è che la volgare fchiera
Solo dagli anni la virtude eftimi,
E più la ruggin che il metallo apprezzi.
Forfe la vena del Caftalio fonte

Secca è a' di noftri, e di Parnafo in cima
Forfe foli poggiar Petrarca e Dante?
Molto fi può dell' Ippocrenio umore
Bere di forga al cristallino fiume,
E vincon le Dantesche ofcure bolge
Molti raggi Febei, molte faville.
Nè della culta Italica favella

Ai padri fia che troppo onor tu paghi,
Ma per ciò del Guarini i molli verfi
Nè la nobile tuba di Goffredo,

Ne la cetera d'or, vita d'Eroi,

Che la Pindaro in dono ebbe Chiabrera,
Ne te udir non dovremo armoniofo
Nuovo cantor, che dall' Aonie cime
Con la ricca tua vena il Lazio bei?
E dovremo foltanto i noftri mari
Correre, e non dovremo anche per l'acque
Inglefio Franche alzar la vela arditi,
Ne il Latino Océan tentar nè 'l Greco,

Algarotti.

Donde

Algarotti. Donde ignota fra noi Parnafia merce
Recar poi vincitori ai Tofchi lidi,

E il fermone arricchir patrio ed il canto?
O di fervile età povere menti!

Nulla dunque lafciar Petrarca, e Dante
All' induftria de' pofteri e all' ingegno?
Dunque fra noi la lunga arte d'Apollo
Perfetta furfe in rozze etadi, in cui
L'arti che pur di lei fono forelle
Giaceano nell' Unnica ruina?
L'indotto Cimabue fcarno ed efangue
Era Apelle a quei giorni; il duro bronze
Fra le mani a Cellin le molli forme
Non avea prefo ancor, nè ancora avea
Michelagnolo al Ciel curvato e spinto
11 miracol dell' arte in Vaticano.
Qual la grinza Canidia il cuor fi rode
Ove Lalage o Cloe, vifpa fanciulla,
Bruna il crin, rofea il volto a fe dei caldi
Giovanetti l'amore e l'occhio inviti;
Tale è Fannio con te. Viver tuoi verfi
Pur egli vede, e farfi con diletto
De' tuoi detti conferve in ogni loco;
Mentre gli aurei volumi, ond' egli rende.
A Monaca o a Dottor Febeo tributo
Muojono al par dell' ultima Gazzetta.
Quindi, credilo a me, quello fdegnofo
Grammatico faggiuol ch' ha fempre allato
Quindi Dante e Petrarca, e i miglior tempi
In bocca ba fempre, e quella invida lode,
Che fol per odio a' vivi i morti efalta.
Ma di là dell' Italico Apennino
Miri coftui del bel Sequana in riva,
Dove l'Achille tuo di nuova lingua
Ma non d'armi più fine riveftito
Sforza i voti e l' applaufo infra una gente
Culta d'ogni faper, ricea d'ogni arte
E del Lazio rivale; e quell' onore
Ti rende ad una voce eftrania gente,
Qual ti rendranno i pofteri tra noi,

Algarotti.

In tanta fiegui il nobile tuo volo,
Cigno animofo, e non degnar dal Cielo
D'un guardo pur quei nubilofi ftagni,
Ove ronzan gl' infetti di Parnasa,
E in feno a eternità credon full' ala
D'un Madrigal poggiare o d'un Sonetto.
Non quegli in cui tepor d'eftranio fuoco
Il petto fcalda, e sì ne agghiaccia altrui;
Ma quegli bene alla cui mente fpira
Degli erranti fantasmi ordinatrice
Aura divina, e ch' or nel molle Sciro,
Or d'Affrica ful lido, ora mi pone
Sull' aureo Campidoglio ed or di speme
Or di vani terrori il petto m'empie
Degli affetti fignor, quegli è il Poeta,
Di Flacco in fulla Lira Apollo il canta,
E adombra Metastasio ai dì venturi
Verace Nume. A piena man fpargete
Sovra lui fiori, e del vivace alloro

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