Tacque; e dal cielo infuso ir fra le vene Sentissi un novo inusitato caldo: Colmo d'alto vigor, d'ardita spene, Che nel volto si sparge, e'l fa più baldo, E da' suoi circondato, oltra sen viene Contra chi vendicar credea Rinaldo; Nè, perchè d'arme e di minacce ei senta Fremito d'ogn'intorno, il passo allenta.
Ha la corazza indosso, e nobil veste
Riccamente l'adorna oltra il costume. Nudo è le mani e'l volto, e di celeste Maestà vi risplende un novo lume: Scote l'aurato scettro, e sol con queste Armi acquetar quegl'impeti presume. Tal si mostra a coloro, e tal ragiona; Nè come d'uom mortal la voce suona.
Quali stolte minacce, e quale or odo Vano strepito d'arme? e chi'l commove? Così qui riverito, e in questo modo Noto son io dopo sì lunghe prove, Ch'ancor v'è chi sospetti, e chi di frodo Goffredo accusi, e chi le accuse approve? Forse aspettate ancor ch'a voi mi pieghi, E ragioni v'adduca, e porga preghi?
Ah non sia ver, che tanta indegnitate La terra piena del mio nome intenda: Me questo scettro, me delle onorate Opre mie la memoria e'l ver difenda: E per or la giustizia alla pietate Ceda, nè sovra i rei la pena scenda. Agli altri merti or questo error perdono, Ed al vostro Rinaldo anco vi dono.
Col sangue suo lavi il comun difetto Solo Argillan di tante colpe autore; Chè, mosso a leggerissimo sospetto, Sospinti gli altri ha nel medesmo errore. Lampi e folgori ardean nel regio aspetto, Mentr'ei parlò, di maestà, d'onore; Tal ch' Argillano attonito e conquiso Teme (chi'l credería?) l'ira d'un viso.
E'l vulgo, ch'anzi irriverente, audace, Tutto fremer s'udía d'orgogli e d'onte, E ch'ebbe al ferro, all'aste, ed alla face, Che'l furor ministrò, le man sì pronte, Non osa (e i detti alteri ascolta, e tace) Fra timor e vergogna alzar la fronte; E sostien ch' Argillano, ancorchè cinto Dell'armi lor, sia da' ministri avvinto.
Così leon, ch'anzi l'orribil coma Con muggito scotea superbo e fero, Se poi vede il maestro, onde fu doma La natía ferità del core altero, Può del giogo soffrir l'ignobil soma, E teme le minacce e 'l duro impero ;
Nè i gran velli, i gran denti, e l'unghie, c'hanno Tanta in sè forza, insuperbire il fanno.
È fama, che fu visto in volto crudo Ed in atto feroce e minacciante Un alato guerrier tener lo scudo Della difesa al pio Buglion davante, E vibrar fulminando il ferro ignudo, Che di sangue vedeasi ancor stillante: Sangue era forse di città, di regni, Che provocar del cielo i tardi sdegni.
Così, cheto il tumulto, ognun depone L'arme; e molti con l'arme il mal talento: E ritorna Goffredo al padiglione, A varie cose, a nove imprese intento; Ch'assalir la cittade egli dispone,
Pría che'l secondo o'l terzo dì sia spento: E rivedendo va le incise travi,
Già in macchine conteste orrende e gravi.
osto ch'orrida notte il ciel coprío, Arma Aletto il Soldan d'ire omicide; Ond'ei co' suoi, che dall' Arabia unío, Assal l'oste fedel, fere ed ancide. Ma già il mostro infernal l'angel di Dio Scaccia; e prendono ardir le genti fide: E prende il Turco alfin la fuga e'l corso; Chè di prodi guerrier giunto è soccorso.
Ma il gran mostro infernal, che vede queti Que' già torbidi cori, e l'ire spente; E cozzar contra 'l fato, e i gran decreti Svolger non può dell'immutabil mente, Si parte; e, dove passa, i campi lieti Secca, e pallido il sol si fa repente; E, d'altre furie ancora e d'altri mali Ministro, a nova impresa affretta l'ali.
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