Onde così rispose: I gradi primi Più meritar che conseguir desío; Nè, purchè me la mia virtù sublimi, Di scettri altezza invidíar deggio: Ma s'all'onor mi chiami, e che lo stimi Debito a me, non ci verrò restío;
E caro esser mi dee che sia dimostro Si bel segno da voi del valor nostro.
Dunque io nol chiedo e nol rifiuto; e quando Duce io pur sia, sarai tu degli eletti. Allora il lascia Eustazio, e va piegando De' suoi compagni al suo voler gli affetti. Ma chiede a prova il principe Gernando Quel grado; e, bench' Armida in lui saetti, Men può nel cor superbo amor di donna, Ch'avidità d'onor, che se n'indonna.
Sceso Gernando è da' gran re norvegi, Che di molte provincie ebber l'impero; E le tante corone e scettri regi E del padre e degli avi il fanno altero. Altero è l'altro de' suoi proprj pregi Più che dell'opre, che i passati fero; Ancorchè gli avi suoi cento e più lustri Stati sian chiari in pace, e 'n guerra illustri.
Ma il barbaro signor, che sol misura Quanto l'oro e 'l dominio oltre si stenda, E per sè stima ogni virtute oscura, Cui titolo regal chiara non renda;
Non può soffrir che'n ciò, ch' egli procura, Seco di merto il cavalier contenda;
E se ne cruccia sì ch'oltra ogni segno Di ragione il trasporta ira e disdegno.
Tal che'l maligno spirito d'averno,
Che'n lui strada sì larga aprir si vede, Tacito in sen gli serpe, ed al governo De' suoi pensieri lusingando siede. E qui più sempre l'ira e l'odio interno Inacerbisce, e 'l cor stimola e fiede; E fa che 'n mezzo all'alma ognor risuona Una voce, ch'a lui così ragiona:
Teco giostra Rinaldo: or tanto vale Quel suo numero van d'antichi eroi? Narri costui, ch'a te vuol farsi uguale, Le genti serve e i tributarj suoi; Mostri gli scettri, e in dignità regale Paragoni i suoi morti ai vivi tuoi.
Ah, quanto osa un signor d'indegno stato, Signor, che nella serva Italia è nato!
Vinca egli, o perda omai, che vincitore Fu insino allor ch'emulo tuo divenne, Che dirà il mondo? (e ciò fia sommo onore) Questi già con Gernando in gara venne: Poteva a te recar gloria e splendore Il nobil grado, che Dudon pría tenne; Ma già non meno esso da te n'attese: Costui scemò suo pregio, allor che 'l chiese.
E se, poich' altri più non parla o spira,
De' nostri affari alcuna cosa sente;
Come credi che'n ciel di nobil ira
Il buon vecchio Dudon si mostri ardente?. Mentre in questo superbo i lumi gira, Ed al suo temerario ardir pon mente, Che seco ancor, l'età sprezzando e'l merto, Fanciullo osa agguagliarsi ed inesperto.
E l'osa pure, e'l tenta, e ne riporta In vece di castigo onore e laude; E v'è chi nel consiglia e ne l'esorta, (Oh vergogna comune!) e chi gli applaude. Ma se Goffredo il vede, e gli comporta, Che di ciò, ch'a te dèssi, egli ti fraude, Nol soffrir tu: nè già soffrir lo dei; Ma ciò che puoi dimostra, e ciò che sei.
Al suon di queste voci arde lo sdegno, E cresce in lui, quasi commossa face; Nè capendo nel cor gonfiato e pregno, Per gli occhi n'esce, e per la lingua audace. Ciò che di riprensibile e d'indegno
Crede in Rinaldo, a suo disnor non tace; Superbo e vano il finge, e'l suo valore Chiama temerità pazza e furore.
E quanto di magnanimo e d'altero
E d'eccelso e d'illustre in lui risplende, Tutto (adombrando con mal arte il vero) Pur, come vizio sia, biasma e riprende; E ne ragiona sì che 'l cavaliero,
Emulo suo, pubblico il suon n'intende: Non però sfoga l'ira, o si raffrena
Quel cieco impeto in lui, ch'a morte il mena;
Chè 'l reo demon, che la sua lingua move Di spirto in vece, e forma ogni suo detto, Fa che gl'ingiusti oltraggi ognor rinnove, Esca aggiungendo all'infiammato petto. Loco è nel campo assai capace, dove S'aduna sempre un bel drappello eletto; E quivi insieme in torneamenti e in lotte Rendon le membra vigorose e dotte.
Or quivi, allor che v'è turba più folta, Pur, com'è suo destin, Rinaldo accusa; E quasi acuto strale in lui rivolta La lingua del venen d'averno infusa. E vicino è Rinaldo, e i detti ascolta; Nè puote l'ira omai tener più chiusa ; Ma grida: Menti; e addosso a lui si spinge, E nudo nella destra il ferro stringe.
Parve un tuono la voce, e'l ferro un lampo, Che di folgor cadente annunzio apporte. Tremò colui, nè vide fuga o scampo
Dalla presente irreparabil morte: Pur, tutto essendo testimonio il campo, Fa sembiante d'intrepido e di forte;
E'l gran nemico attende; e, 'l ferro tratto, Fermo si reca di difesa in atto.
Quasi in quel punto mille spade ardenti Furon vedute fiammeggiare insieme; Chè varia turba di mal caute genti D'ogn'intorno v'accorre, e s'urta e preme. D'incerte voci e di confusi accenti
Un suon per l'aria si raggira e freme; Qual s'ode in riva al mare, ove confonda Il vento i suoi co' mormoríi dell' onda.
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